ELIMINARE LE ARMI, NON GLI ESSERI UMANI
Tutte le guerre, comprese quelle in corso, comportano almeno tre aspetti: l’eliminazione delle armi dei nemici, la distruzione delle loro strutture di supporto e infine l’uccisione dei nemici stessi. Questi tre aspetti sembrano legati indissolubilmente, ma è proprio questo che vorremmo mettere in discussione.
Anzitutto, l’uccisione di esseri umani solleva grossi problemi, più gravi di quelli che si pongono per la distruzione delle armi o delle infrastrutture. A questo proposito, l’aspetto più importante è di natura morale: “non uccidere” è infatti un comandamento condiviso quasi universalmente. Anche dove il cinismo umano elimina qualunque regola morale, resta pur sempre la convenienza di non apparire troppo barbari e incivili, se non altro per non alienarsi le simpatie delle opinioni pubbliche mondiali.
In questo quadro, la propaganda delle parti in guerra lascia spesso intendere questa narrazione: distruggere il potenziale militare, logistico ed economico del nemico è l’obiettivo primario, mentre uccidere i nemici e soprattutto i civili inermi sarebbe un “effetto collaterale”. Quasi come dire che dispiace, ma non si può proprio farne a meno.
È chiaro che quanto fin qui detto riguarda soprattutto le guerre in qualche misura ufficializzate, che quindi dovrebbero rispettare le convenzioni sottoscritte internazionalmente, o quanto meno fingere di rispettarle. È invece molto più debole la speranza di poter regolamentare, almeno a un livello minimo, le azioni violente delle organizzazioni terroristiche non statuali. Esse di regola sfuggono a qualunque forma di controllo istituito per ragioni umanitarie. Al massimo, i terroristi potrebbero cedere a qualche ricatto, come per esempio la minaccia di non ricevere più finanziamenti o armi da parte di Stati fiancheggiatori.
No a una guerra totale e senza regole
Si pone a questo punto un interrogativo, riguardante i limiti della ritorsione che si dovrebbe auto-imporre una nazione che sia stata vittima di un’azione militare massiccia, come potrebbe essere un’invasione oppure un attacco terroristico devastante. Una certa corrente di pensiero sembra sostenere che nessun limite andrebbe considerato, a meno che il prezzo da pagare non sia troppo alto.
Qui di seguito cercheremo di riflettere su alternative che non siano basate esclusivamente sui rapporti di forza e sulle convenienze delle parti in guerra, ma anche sulle disastrose conseguenze economiche, ambientali e umanitarie che ogni guerra provoca per tutti, compresi i non belligeranti. L’assunto di base di queste ipotesi è che alla fine nessuno vince davvero una guerra, ma a conti fatti tutti la perdono, chi più e chi meno. La pista che seguiremo ipotizza di separare, per quanto possibile, i tre obiettivi militari citati in premessa: le armi, le infrastrutture e gli esseri umani.
Forse esiste un generalizzato consenso su alcuni diritti di cui ogni popolo dovrebbe godere, tra questi il diritto di non essere invaso o di non essere sterminato con le armi. Bisogna purtroppo dire “forse”, perché anche tra gli adulti qualche volta si fanno strada alcune obiezioni che abbiamo imparato bene da bambini, come per esempio: “ha cominciato prima quell’altro”, oppure “e allora, gli altri che cosa hanno fatto?”
È poi opinione diffusa che il diritto alla legittima difesa dovrebbe essere proporzionale all’offesa ricevuta, con qualche inconveniente legato a questa moderna lettura della legge del taglione: quando si è stati vittime di un attacco proditorio, particolarmente disumano e sanguinoso, allora andrebbe considerato legittimo rispondere con proporzionale ferocia?
Salvaguardare le vite umane, il territorio e l’ambiente
Un comportamento umanitario è attento anzitutto a risparmiare le vite delle persone, in primo luogo degli aggrediti, ma anche degli aggressori. E un comportamento ecologico evita al tempo stesso di distruggere senza necessità gli insediamenti residenziali e di compromettere l’ambiente.
L’obiezione a questa prospettiva è molto facile: se non è consentito bombardare i civili e soprattutto gli ospedali, le scuole o le chiese, allora è evidente che proprio questi diventano luoghi ideali per nascondere gli armamenti e alloggiare le truppe. L’applicazione dei cosiddetti “scudi umani” ne è una prova evidente. D’altra parte, senza bonificare pienamente il territorio, eliminando ogni minaccia militare, l’obiettivo della sicurezza si allontana di molto.
Una possibile soluzione consisterebbe nell’attivare i cosiddetti “corridoi umanitari”, cioè dei percorsi sicuri attraverso cui la popolazione senz’armi possa mettersi in salvo, avvertita in anticipo prima dell’intervento delle forze che devono provvedere a smilitarizzare l’area. In un mondo ideale queste forze dovrebbero essere contingenti ONU, ma più realisticamente si potrebbe pensare anche a un mandato ONU di pacificazione, oppure a un intervento della parte aggredita sotto supervisione internazionale.
Un processo simile dovrebbe procedere per gradi, perché sarebbe necessario provvedere via via alla sistemazione in sicurezza degli abitanti degli insediamenti interessati alla smilitarizzazione. Ci vorrebbe molto tempo e meticolosa pazienza, ma oltre al risparmio di vite umane in questo modo si potrebbero anche evitare bombardamenti devastanti, così che dopo la bonifica gli abitanti possano rientrare pacificamente nelle loro città, senza doverle ricostruire.
Israele e Hamas
Fino a questo punto si è argomentato in linea generale, quindi senza volersi riferire troppo strettamente a casi specifici. Oggi però la realtà concreta obbliga a domandarsi in primo luogo se queste ipotesi potrebbero applicarsi al conflitto in atto tra Israele e Hamas. Sul contenimento di questo conflitto si stanno cimentando le diplomazie di tutto il mondo e indubbiamente nessuno si sogna di avere in tasca magiche soluzioni.
Siamo dunque nel campo delle congetture più fragili, però (a due settimane dall’attacco terroristico) fa riflettere il ritardo con cui Israele sembra procedere con l’ingresso da terra nella striscia di Gaza. Da un lato, questa cautela deriva con tutta evidenza dalla detenzione in quel territorio di ostaggi catturati da Hamas. D’altro lato, l’obiettivo di distruggere tutte le infrastrutture militari della striscia sembra fondamentale per assicurare la sicurezza di Israele.
In conclusione, due ulteriori osservazioni sembrano possibili. Anzitutto, fa riflettere il dato che le prime incursioni israeliane in territorio palestinese abbiano provocato numerose vittime, ma non abbiano sostanzialmente intaccato il potenziale bellico di Hamas, che continua a lanciare i suoi missili come prima. La seconda osservazione riguarda il dato che, almeno fino al momento in cui scriviamo queste note, Israele ha solamente richiesto alla popolazione civile residente nel nord della striscia di Gaza di spostarsi nella zona sud, con enormi problemi umanitari, aggravati dall’embargo.
Non sappiamo se tutto ciò possa confermare una possibilità di smilitarizzazione graduale della striscia di Gaza, prima nel nord e successivamente nel sud. In tal caso, una volta messa in sicurezza la popolazione, si potrebbe cominciare a smantellare le installazioni militari senza procedere a quei bombardamenti, indiscriminati e devastanti, che abbiamo visto in passato, con molte vittime.
Se al contrario si dovesse insistere con l’ingresso tradizionale di truppe di terra, preparato dall’artiglieria e dall’aviazione con la distruzione di ogni scenario urbano, insieme con la popolazione che ci vive, allora non è difficile immaginare che da questa catastrofe umanitaria, economica e ambientale nasceranno in futuro nuove guerre.
Enrico Maria Tacchi – direttore scientifico CESPOE